Lone Survivor di Peter Berg

20 febbraio 2014

Da qualche tempo è in atto negli Stati Uniti un ampio dibattito sulla liceità dell’utilizzo di droni per spiare il territorio nemico e localizzare pericolosi avversari, da colpire poi con armi teleguidate. Viene da pensare che Lone survivor sia stato finanziato dal Pentagono, proprio per portare acqua al mulino dei sostenitori dei droni. Infatti tutto il film ruota intorno alla disavventura di una pattuglia di Navy Seals, inviati in ricognizione in una zona impervia dell’Afghanistan per individuare il nascondiglio di un feroce capo Talebano.

La storia è ispirata ad un fatto realmente accaduto nel 2005, raccontato come dice il titolo dall’unico sopravvissuto, e divenuto un libro di successo prima di essere trasformato in pellicola. Si parte con un breve antefatto che ci fa vedere quali prove fisiche, al limite quasi della tortura, debbano superare gli aspiranti per diventare infine Navy Seals. L’azione passa poi nel campo base in Afghanistan, dove facciamo rapidamente conoscenza con quelli che saranno i protagonisti della pericolosa missione (pericolosa con il senno di poi, perché all’inizio sembra un’azione quasi di routine).

La pattuglia viene facilmente elitrasportata in zona, e marciando nel bosco riesce ben presto a mettere sotto osservazione il bersaglio, ma sul più bello un gruppetto di pastori locali li scorge, ed è giocoforza catturarli, per evitare che diano l’allarme. Segue una accesa discussione, in cui i più cinici dei Seals propongono di uccidere i prigionieri, per poter continuare la missione, ma alla fine il capogruppo decide di rilasciare i pastori e abortire la missione, cercando di rientrare tra le linee amiche. Purtroppo l’allarme scatta rapidamente e i Talebani, grazie alla conoscenza del terreno e al numero preponderante, sono subito alle calcagna dei fuggitivi e nel lungo scontro a fuoco solo un americano resta per il momento vivo.

Ferito ed isolato, sembra destinato ad essere presto trovato ed ucciso dai nemici, ma interviene, come una specie di deus ex machina, un generoso capo villaggio locale che, trovato il superstite, non solo non lo uccide né lo consegna ai Talebani, ma lo cura, lo sfama e non esita a impegnare tutto il suo villaggio in uno scontro con i Talebani, pur di difendere la vita dell’americano. Quando la situazione sembra del tutto compromessa, nella migliore tradizione dell’arrivano i nostri! compaiono all’orizzonte gli elicotteri d’attacco USA, che fanno strage di nemici e riportano a casa il superstite.

Detto così della trama, occorre fare qualche considerazione. La gran parte della durata del film è occupata dallo scontro tra Seals e Talebani, come un lungo videogame sparatutto, dove i Seals, spesso inquadrati in soggettiva, appena hanno nel mirino un Talebano lo fanno secco al primo colpo, mentre loro pur colpiti più volte continuano stoicamente a combattere. Inoltre, nel tentativo di sfuggire ai nemici lungo l’impervio fianco della montagna, ruzzolano giù più di una volta dando senza gravi conseguenze contro alberi e rocce degli urti che ucciderebbero un bisonte. Traspare evidente, insomma, la retorica del cinema USA alla John Wayne o alla Rambo, in cui un combattente americano vale almeno quanto dieci nemici e quasi nulla riesce a fermarlo. Inoltre la scelta di lasciar liberi i pastori vuole esaltare la grandezza d’animo dei soldati yankee, disposti a rischiare la propria vita (e perderla in effetti, per molti di loro) pur di non macchiarsi del sangue di innocenti.

Purtroppo invece casi come Sand Creek o My Lai hanno mostrato che l’esercito USA non è sempre fatto di boy scout. La cinematografia consapevole e coraggiosa l’ha riconosciuto con capolavori come Soldato blu o Apocalypse now; Lone survivor non ha queste velleità, e punta piuttosto a soddisfare i tanti redneck americani, tutti chiesa, bandiera e fucile.

La figura veramente nobile del film è il capo del villaggio che si prende cura del superstite, anche se durante il film sinceramente non sono assolutamente chiare le motivazioni del suo gesto. Solo i titoli di coda ci dicono che questo comportamento risponderebbe al codice d’onore Pashtun, che impone di accogliere un ospite e se necessario difenderlo dai suoi nemici. Poiché il film, come detto, è tratto da un episodio realmente accaduto, vogliamo credere che ci sia stato davvero un villaggio che ha aiutato il Seal sopravvissuto, ma francamente pensare che tutto sia da ascrivere al codice Pashtun sembra inverosimile. Probabilmente gli abitanti di quel villaggio erano di una etnia nemica dei Talebani per motivi preesistenti, politici o religiosi, e hanno visto la difesa dell’americano come una forma di sfida all’invadenza talebana. Peccato che il film non approfondisca minimamente le motivazioni psicologiche, lasciando la parola solo alle armi anche nello scontro tra gli abitanti del villaggio e i Talebani.

Resta il fatto che quando gli elicotteri americani alla fine ripartono, portando alla base il superstite, nessuno del villaggio viene portato in salvo con lui, e non è difficile immaginare che, appena scomparsi all’orizzonte gli elicotteri, i talebani siano tornati mettendo il villaggio a ferro e fuoco (non sembra credibile la tranquillizzante scritta al riguardo nei titoli di coda). La scena ricorda la famosa evacuazione dell’ambasciata americana a Saigon poco prima dell’arrivo dei nordvietnamiti, con gli ultimi funzionari americani che sul tetto si imbarcavano in fretta negli elicotteri, e i sudvietnamiti fino ad allora loro alleati lasciati a vedersela col nemico in arrivo.

In conclusione, un film che ci sentiamo di consigliare solo a chi ama l’azione e le sparatorie, e non avverte un sottile senso di nausea per la retorica a stelle e strisce.

Il film, diretto da Peter Berg ed interpretato da Mark Wahlberg, Taylor Kitsch, Ben Foster, Emile Hirsch e Ali Suliman, è in sala dal 20 febbraio 2014.

Ugo Dell’Arciprete