La mostra, originale ed innovativa, è promossa della Fondazione Giancarlo Ligabue presieduta da Inti Ligabue

Venezia, Palazzo Franchetti-Istituto di Scienze Lettere ed Arti: la mostra “POWER & PRESTIGE. Simboli del comando in Oceania

  Cultura e società   

Dal 16 ottobre Palazzo Franchetti - Istituto di Scienze Lettere ed Arti ospita la mostra POWER & PRESTIGE. Simboli del comando in Oceania, che permette di scoprire le bellezze artistiche e gli elementi culturali e simbolici di mondi e civiltà lontani, fuori dagli stereotipi.

La mostra POWER & PRESTIGE. Simboli del comando in Oceania, curata da Steven Hooper, direttore del Sainsbury Research Unit per le Arti dell’Africa, Oceania e delle Americhe presso l’Università dell’East Anglia nel Regno Unito, considerato uno dei massimi esperti internazionali in materia.

La mostra è copromossa dalla Fondazione Giancarlo Ligabue con il Musée du quai Branly di Parigi, il museo con la più vasta collezione di arte etnografica del mondo che la ospiterà in seconda sede

La mostra riunisce, per la prima volta in Italia e in Europa, 126 bastoni del comando: mazze di straordinaria bellezza con diverse funzioni, realizzate nel XVIII e XIX secolo, una decina delle quali appartenenti proprio alla Collezione Ligabue.

Questa mostra è la prima interamente dedicata a questi manufatti sui quali getta nuova luce, e una rivelazione per tutti coloro che sono interessati alla scultura e alle affascinanti culture dei “mari del Sud”. Il Nuovissimo Continente, come viene oggi indicata l’Oceania, l’ultimo ad essere scoperto dagli Europei prima dell’Antartide, è un insieme estremamente diversificato di isole sparse su metà della superficie del nostro pianeta, accomunate dal grande Oceano che le unisce. Dall’Australia e la Nuova Guinea a ovest abitate da 50.000 anni, alle isole della Polinesia come Tahiti, l’isola di Pasqua e le Hawaii scoperte da intrepidi viaggiatori polinesiani mille anni fa, queste terre hanno una ricca varietà di culture che affascinarono i primi europei, che le raggiunsero a partire dal Cinquecento. Gli abitanti del Pacifico avevano sviluppato tecniche, usi e forme d’arte originali che si erano evolute o modificate nei territori oceanici in base ai diversi contesti e alla storia di ognuno. I bastoni del comando - solitamente classificati come armi primitive anche se in molti casi mai utilizzati come tali, in realtà anche bellissime sculture in legno, pietra e osso di balena, manufatti dai molteplici usi e significati, pezzi unici espressione della creatività e della capacità di straordinari artigiani - erano tra i materiali più diffusi e ancora prodotti quando, tra Sette e Ottocento, le spedizioni del Vecchio Continente iniziarono a giungere con frequenza in quelle terre, prima che i missionari e le amministrazioni coloniali ne scoraggiassero la produzione. Oggetto di curiosità e ammirazione, di studio e di collezionismo, vennero portati in Occidente da avventurieri, ricercatori, commercianti, missionari e ufficiali coloniali. Eppure, proprio perché a lungo considerati strumenti cruenti di selvaggi, furono costretti a un ruolo minore nei musei e nelle esposizioni. Ora i bastoni del comando dell’Oceania saranno mostrati nella loro stupefacente bellezza scultorea e, sfidando gli atteggiamenti convenzionali e “la deformazione percettiva delle letture occidentali”, verranno presentati nelle loro molteplici valenze: vere opere d’arte complesse, rappresentazioni di divinità, status symbol, pregiati oggetti di scambio e accessori per le esibizioni, e talvolta strumenti di combattimento.

La mostra, accompagnata da un prezioso catalogo Skira, è stata anche l’occasione per il primo studio sistematico di questi materiali, che avevano un ruolo importante nelle culture delle isole del Pacifico - nelle Figi, Tonga, Tahiti, Nuova Guinea, Isola di Pasqua e altre isole - espressioni d’arte e usi radicati da conoscere e rispettare; oggetti che hanno suscitato l’ammirazione di celebri artisti del Novecento come Alberto Giacometti, Henry Moore e Constantin Brancusi, ma che sono stati dimenticati o poco indagati dagli stessi musei pro­prietari.

 Versione stampabile




Torna